Una delle più antiche comunità ebraiche in Italia è quella di Roma, dove gli Ebrei iniziarono a stabilirsi fin dal I secolo a.C. Inevitabile, quindi, che la sua storia si sia intrecciata con quella della Capitale, lasciando tracce che ancora oggi permangono in quella cucina giudaico-romanesca che costituisce uno degli aspetti più interessanti della storia della gastronomia laziale e nazionale. Il forte conservatorismo della comuntà, unito al sua profondo radicamento nel tessuto urbano, hanno trasformato questo patrimonio nell’incarnazione della memoria storica di un popolo che, pur nelle sue differenze, aveva in comune la stessa matrice – vale a dire quella della cucina povera, basata su ingredienti di scarto, spesso alla base di piatti elaborati, che nascevano proprio dalla necessità di riciclare, in modo saporito, quello che dalle mense della cristianissima nobiltà papalina era rigorosamente bandito. La kasherut regolava il consumo di alcuni prodotti destinati a diventare parte essenziale della storia gastronomica romana, come il quinto quarto e il pesce azzurro, per secoli l’unico pesce riservato a questa comunità. La tradizione sefardita che costituiva il background degli Ebrei romani apportò, poi, quella ventata di profumi e colori tipica della cucina del Mediterraneo, con un utilizzo fantasioso e creativo delle verdure. E, infine, prese campo con crescente successo anche la pasticceria, i cui prodotti (come il Tortolicchio, il Mustacciolo, la Mocchiata e la Pizza Dolce) costituiscono ancora oggi un fiore all’occhiello di questa cucina.
A Roma, al Portico d’Ottavia, in quello che era il Ghetto ebraico e dove ancora vivono i “vecchi” Ebrei romani, ci sono i ristoranti e i negozi storici, la cui fama si è estesa anche oltre i confini della città. Fra questi, la pasticceria Boccione, conosciuta anche come “quella delle vecchiette”, dall’età delle signore che accoglievano i clienti dietro il banco. Le specialità di questo forno sono ricette di dolci della tradizione ebraica, tramandate di generazione in generazione e preparate in modo rigorosamente fedele alla kasherut: non conoscono mode, ma soggiacciono solo al calendario liturgico e ai ritmi dell’anno.
Tutti i dolci ebraici al formaggio nascono per la festa di Shavuot, dove si consumano latte e derivati a iosa. C’è anche la coincidenza che Shavuot cada 7 settimane dopo la Pasqua ebraica e quello è il periodo delle ciliegie. Ma sono solo supposizioni.
Cosa è Shavuot. Shavuot o Festa delle Settimane o Festa della Mietitura o delle Ptimizie è una festività che cade 49 giorni dopo la Pesach, la Pasqua ebraica. In essa si commemora anche il dono della Torah, poiché, secondo la tradizione, è in questa data che Dio la consegnò al Popolo di Israele: tuttavia, la parte centrale della ricorrenza è la celebrazione della mietitura del grano, con l’offerta delle primizie al tempio. Una festa tipicamente agricola, che si mantenne anche dopo la diaspora, nella simbologia dei sette frutti considerati la benedizione di Israele: grano, orzo, uva, fichi, melograno, olive e datteri.
Si usa trascorrere la prima notte di Shavuot studiando per tutta la notte: durante la festa, invece, si legge il libro di Ruth, l’antenata del Re David, che scelse di sua volontà di divenire parte del Popolo Ebraico. La storia di Ruth è legata a Shavuot per due motivi: perché la sua conversione ebbe luogo durante la mietitura e perché si crede che il Re David sia nato e morto nel giorno di Shavuot. Il legame con Ruth mette poi in evidenza come chiunque abbia la possibilità di accogliere la Torah e diventare in questo modo parte integrante del popolo ebraico. E’ consuetudine adornare il Tempio con fiori e piante, in ricordo del profumo che gli ebrei sentirono quando furono promulgati i Comandamenti. Non si dice Tachannun nei cinque giorni successivi a Shavuot.[1]
Durante la festa di Shavuot, è consuetudine fare pasti a base di latticini. Gli storici si sono interrogati sulle motivazioni sottese a questa usanza e hanno elaborato varie ipotesi: “Il Cantico dei Cantici (4:11) fa riferimento al valore nutritivo dolce della Torah, dicendo: “Stilla dalle tue labbra, come il miele e il latte sotto la lingua; nel verso dell’Esodo 23:19 giustappone la festa di Shavuot con il divieto di miscelazione del latte con la carne. A Shavuot, dobbiamo quindi mangiare pasti separati – uno di latte e uno di carne” (2) L’ultima, la più suggestiva, si ricollega all’obbligo delle leggi della Sh’chita – La macellazione degli animali, subito dopo aver ricevuto la Torah. Non avendo il tempo materiale di macellare la carne secondo i dettami della Kasherut, gli Ebrei si risolsero a mangiar latticini.
Le visciole, insieme alle amarene e alle marasche, fanno parte della specie botanica Prunus cerasus, ciliegio aspro, al contrario delle ciliegie che fanno parte della specie Prunus avium, ciliegio dolce. Sono molto simili, ma la differenza di sapore è notevole: semplicemente dolci le ciliegie, dolci-acidule le visciole, per nulla amarognole come le amarene e molto più dolci rispetto alle marasche. Le visciole, una volta coltivate nelle campagne laziali, ormai fanno parte dei tempi che furono, surclassate dalle più populiste ciliegie, grazie al binomio vincente di una resa abbondante e di un sapore capace di intercettare i gusti di un’ampia clientela. Questo segnò il declino delle visciole, diventate troppo care e a poco a poco sparite dai banchi della frutta. Per trovarle, a Roma, bisogna conoscere le campagne intorno alla città oppure avere un amico al mercato di Testaccio o di San Giovanni di Dio. E invece non molti decenni fa la marmellata con la maiuscola era proprio la marmellata di visciole. Farciva le semplici crostate preparate per merenda dalle nonne, serviva per fare il vino di visciole o il liquore per le signore e veniva utilizzata come base per la crostata di ricotta e visciole, il dolce tipico ebraico romano. Questo dolce semplice e quasi nostalgico resiste nei forni del centro di Roma e in quello famoso di via di portico d’Ottavia nella versione “originale” ma anche quella più moderna, con le visciole e la crema di mandorle.
Sembra che le origini della crostata di visciole e ricotta risalgano al ‘700, quando alcuni editti papali vietarono agli ebrei di vendere latticini ai cristiani. Fu allora che i fornai, per eludere i controlli delle guardie papali, decisero di nascondere la ricotta tra due strati di pasta frolla. Infatti, la crostata non ha la griglia come normalmente hanno le crostate, ma è tutta chiusa: non si vede l’interno per nascondere la presenza della ricotta.
(FONTE aifb.it)
Ingredienti per una crostata di visciole per uno stampo da 20 cm
220 g di farina
70 g di zucchero
50 g di burro
2 tuorli
1 albume
1 cucchiaino di lievito chimico
sale
bucce di limone
Impastate tutto insieme come si fa normalmente per le crostate e, se fosse troppo asciutto, aggiungete qualche goccio di latte, ma poco. Date all’impasto la forma di una palla schiacciata, avvolgetelo nella pellicola e lasciatelo riposare l’impasto in frigorifero almeno un’ora.
per la crema al formaggio:
500 g di ricotta di pecora
150 g di zucchero semolato
2 uova
2 cucchiai di sambuca
350 g di confettura di visciole o amarene
Mettete la ricotta in una ciotola, aggiungete lo zucchero, le uova già sbattute e la sambuca, lavorate molto bene per amalgamare gli ingredienti.
Dividete la pasta frolla in due panetti, uno per la base più grande e uno per la copertura. Stendete la pasta frolla sopra alla carta forno e sistematela nello stampo, spalmate bene la confettura, poi la crema di ricotta, livellatela e quindi ricoprite con l’altra pasta frolla. Sigillate bene i bordi per evitare che esca la farcitura, spennellate la superficie con l’uovo sbattuto e infornate a 170/180° per 50 minuti. Controllate la cottura perché con la carta forno tende a cuocere meno, se dovesse essere troppo pallida lasciatela ancora qualche minuto.